Il ‘500 e il ‘600

Nell’età moderna, l’insediamento rifiorisce lentamente: il Cinquecento  è un secolo di generale ripresa demografica e ciò favorisce in qualche modo anche la situazione locale, che risente tuttavia dell’opprimente regime politico e fiscale, tipico della dominazione vicereale spagnola.

I segni della depressione economica e sociale si manifestarono agli inizi del Cinquecento; nel 1532, i fuochi (alloggi familiari) erano solo 283[1]. Nel 1595 essi erano, però, già saliti a 524 (Figura 11).

Figura 11 – Il Vallo di Diano e Sala nel ‘500.
Carta Vaticana 1572-85. A. Sacco, vol. I, Tav. IX.

I Sanseverino dominarono Sala fino al 1548. Nel 1552 il feudo fu venduto al principe di Stigliano e nel 1558 passò al principe Scipione Carafa, che per la sua crudeltà fu assalito e ucciso. Il fratello del Carafa vendette allora Sala alla marchesa Ippolita Filomarino. Nel 1579 Sala ottenne di diventare città demaniale, dipendente direttamente dal re, col titolo “regia fidelis dilecta aurea”. Una relativa autonomia, non senza contrasti con la feudalità, dovette godere già in precedenza almeno dal tempo dei normanni; al 1378 risalivano gli Statuta in Ordinatione Universitatis Hominum Terrae Salae, ora smarriti (Figura 12).

Figura 12 – Il Vallo di Diano alla fine del ‘500.
Disegno Cartaro-Stelliola del 1590-94. Biblioteca Nazionale Napoli.

Alla fine del Quattrocento Giovanni Bigotti aveva donato al monastero di Padula i beni ereditati dal padre e situati a Venosa e a Sala Consilina. I certosini edificarono su questi beni la prima Grancia di Sala (La Vecchia) che è attigua al Palazzo Bigotti e sul portale reca, scolpita su pietra, la graticola con le iniziali dell’ordine certosino.

Di rilievo è la loggia interna e quattro archi sospesa su medaglioni curvi di pietra ed addossata a un lato del cortile quadrangolare, al quale si accede dall’ingresso principale tramite un androne, di analoga pianta, terminate con un ampio cortile (Figura 13).

 

 

 

Figura 13 – La Grancia di S. Lorenzo

La situazione si aggrava drasticamente con la metà del secolo XVII, quando la peste del 1656 sconvolge tutto il Mezzogiorno: anche Sala viene decimata dall’epidemia, con conseguenze pesanti sulla sua struttura demografica, economica e sociale.

Nel 1656 era la peste a ridurre i 611 fuochi del 1648 ai 189 del 1669. La spaventosa epidemia è descritta dal medico del tempo Geronimo Gatta[2] in forma epistolare, rivolta alla contessa di Buccino donna Beatrice Caracciolo.

Figura 14 – La Valle di Diana e Sala.
Atlante di Mario Cartaro del 1613

Scelto come sede dei vescovi di Capaccio che vi rimasero fino al 1850, fu venduto nel corso del Seicento a Francesco Filomarino, principe di Rocca dell’Aspro, che ne ebbe la giurisdizione baronale. La cessione provocò forti tensioni tra il principe e il vescovo, alle quali si unì il malcontento popolare contro i nobili, che raggiunse l’acme nel 1647, in coincidenza coi moti di Masaniello a Napoli: in tale occasione un “collettore de’ Regii Fiscali” fu legato a un olmo nella pubblica piazza e arso vivo, e anche il barone della città, Carlo De Mari, venne ucciso insieme a suo cugino.

In seguito la giurisdizione baronale di Sala venne ceduta al duca Carlo Calà di Diano (1665); e poi passò agli Schipani, che la tennero dal 1706 al 1807 (Figura 15).

Figura 15 – Il Vallo di Diano nel ‘600.
A. Sacco, vol. I, p. 203

In quel periodo, grazie alla scelta da parte dei vescovi di Capaccio di Sala Consilina come sede vescovile, si sviluppò l’abitato intorno alla chiesa di S. Pietro e al vescovado. Il borgo medievale si estende in maniera longitudinale verso Sud lungo le pendici della montagna, ottimizzando sempre l’esposizione verso il sole e i terreni della vallata. Nascono così i rioni della Piazzarella ( Piazzetta Gracchi) e di S. Raffaele (TAV “L’espansione di Sala con l’insediamento del Vescovado”).

La chiesa di San Pietro, sicuramente sorta prima del XVI secolo, fu scelta per volontà dei Vescovi della Diocesi di Capaccio, quale chiesa Cattedrale quando Sala, nel 1629, divenne sede staccata della diocesi di Capaccio. In questa circostanza il clero di Capaccio donò preziosi arredi per il suo decoro. Da un’iscrizione ancora leggibile nel campanile della chiesa, si sa che monsignor Carafa, successore del Brancaccio, nel 1641 ne fece completare la fabbrica. Purtroppo a causa di un incendio, avvenuto nel 1705, nessuna testimonianza di quell’epoca è giunta a noi.

Un nuovo palazzo fu edificato per la prima sede del vescovo e per un annesso seminario. Il palazzo, oggi sede della casa circondariale, presenta lungo le sue mura stemmi e iscrizioni che ne tramandano il ricordo. Di notevole pregio è il portale di pietra dell’arco a tutto sesto che è posto all’ingresso della fabbrica, così come la corte interna caratterizzata da una scala settecentesca (Figura 16).

Figura 16 – Ex Palazzo Vescovile

Nel nuovo quartiere di S. Raffaele viene eretta anche la cappella dell’omonimo rione. Interessante è il campanile a vela inglobata nella muratura e il rosone, testimonianze risalenti alla fine del Seicento e agli inizi dell’Ottocento (Figura 17).

Figura 17 – Cappella di S. Raffaele

Nel luogo anticamente detto la Valle sorgeva l’abitazione  della famiglia Gatta, fiorita tra il XVII-XVIII secolo, delle strutture originarie furono purtroppo abbattute intorno al 1970; rimangono, però, alcuni elementi dell’epoca: il portale di ingresso, in muratura sul quale si scorgono ancora alcune tracce di affreschi dell’epoca (Figura 18).

Figura 18 – Palazzo Gatta

Altra pregevolissima fabbrica, sorta alla fine del ‘600, fu il Palazzo Vairo, iniziata da don Domenico Vairo nel 1689, con l’ingresso posto all’inizio dell’attuale via Indipendenza. Il palazzo fu ingrandito e rimaneggiato nella metà del ‘700.

Imponente è anche l’originaria struttura della famiglia Bigotti, ridotta oggi ad un rudere, nel quale sono però vivi i segni di una fabbrica pregevole (Figura 19).

Figura 19 – Ruderi del Palazzo Bigotti


[Nota 1] L. Cassese, La vita sociale nel Vallo di Diano dal secolo XVI alla vigilia della rivoluzione del ’99, in “Scritti di Storia Meridionale”, La veglia Editore, Salerno 1970, p. 35

[Nota 2] V. Bracco, Polla, p. 196

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